Intervista con Pietro Francesco Toffoletto, Chitarrista (it)
(11 di agosto 2014, fatto da Ellen Moysan, skype Chartres/Milano)

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Pietro Francesco Toffoletto è laureato in Filosofia all’Università degli Studi di Milano e si è diplomato al Conservatorio “G. Verdi” della stessa città dopo aver frequentato l’accademia musicale “G. Marziali” a Seveso, sotto la guida del M° Marco Bonfanti.
Ha partecipato a diversi corsi di perfezionamento sulla tecnica e l’interpretazione del repertorio chitarristico classico con maestri quali Oscar Ghiglia, Elena Papandreou, Lorenzo Micheli, Matteo Mela, Paolo Pegoraro, Stefano Viola, Massimo Lonardi, Stefano Bonfanti, Jeffrey McFadden, Andrew Zohn.
È professore di Storia, Filosofia e Musica al Liceo scientifico Talisio Tirinnanzi di Legnano (MI) ed è attivo in campo musicologico, strumentale e corale come musicista e direttore di numerosi ensemble vocali e strumentali legate alle realtà scolastiche e culturali della Lombardia.
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Allora, comincerei col chiederti se si usa in Italia l’espressione “canto interiore”.
Direi di sì; o meglio, penso di cogliere il senso che le si può attribuire quando, per esempio, in ambito strumentale il maestro dice all’allievo: “prova a cantare questa frase, quando la suoni”. Si riferisce probabilmente a quello che chiami “canto interiore” – anche se questo termine, di per sé, credo venga usato in altri ambiti (penso alla meditazione e all’uso che essa può fare del canto).
In questo senso il maestro cosa intende ottenere ?
Vuole aiutare l’allievo a rendere quel pezzo più suo, più personale, o anche solo più còlto nelle sue parti.
E perché è più facile con il canto ?
Per esempio perché è più facile eseguire il legato. Quando non c’è il problema « meccanico » dello strumento è più facile cogliere la melodia nella sua unitarietà.
E poi ?
Poi perché aiuta a capire dove sono i silenzi, le pause. Mi ricordo un episodio accadutomi ad un corso con Paolo Pegoraro, chitarrista classico italiano tra i più importanti al mondo e didatta straordinario del suo strumento: eravamo alle prese con la prima pagina del Nocturnal after John Dowland Op. 70 di Benjamin Britten, brano tra i più affascinanti e difficili di tutta la letteratura moderna per chitarra, ed io non riuscivo a rispettare le lunghe pause tra una melodia e l’altra – fondamentali per l’espressione -. Lui intuì che il problema era un impaccio con lo strumento, che non mi permetteva di « sentire » fino in fondo e quindi realizzare la relazione tra la melodia e il silenzio; mi suggerì di cantare e, in modo anche a me inaspettato, riuscii ad eseguire tranquillamente tutti i passaggi melodici, con fraseggio e pause adeguati. Poi tornare a lavorare con lo strumento è stata un’altra cosa!
Il fatto che non ci sia nessun ostacolo fra l’intenzione e il suono fa della voce il mezzo più facile per cogliere e far uscire il canto interiore ?
Sì, lo si potrebbe dire così. Ma c’è anche qualcosa di ancora più originario: la voce è il primo mezzo di espressione dell’uomo, è quindi lo strumento con il quale siamo più familiari. Non dobbiamo imparare una tecnica per usarla, è qualcosa di immediato, spontaneo (anche se per imparare ad usarla bene certamente occorre una tecnica, che però è una evoluzione di quella naturale). E’ così che, starei per dire, la voce è il medio fra l’idea e la materia.
Capisco.
Aggiungerei anche che può essere una via che rende possibile un obiettivo fondamentale – riprendendo una cosa che ho imparato dai miei maestri Marco Bonfanti e Paolo Pegoraro -: il fatto di non essere dominati dalle asperità dello strumento. Un altro esempio eccezionale di musicista, tra quelli che ho potuto conoscere, che testimoniano questa unità tra intento espressivo e realizzazione sonora, con lo strumento che si plasma, esaltandosi, nel suo essere « cantato », è Lorenzo Micheli. Comunque: la voce va in armonia con il proprio corpo. Cantare prima di suonare permette di avvicinare lo strumento con qualcosa che appartiene a noi.
(M. Bonfanti sulla sinistra)
(L. Micheli sulla sinistra)
In termini filosofici – ne approfitto perché parlo con un professore di filosofia – , non c’è un’estraneità.
Giusto. Direi anzi che c’è una vera coincidenza fra personalità e modo di cantare. Lo vedo bene quando faccio cantare i miei allievi: la maturazione umana si può vedere nel modo in cui si usa la propria voce. Provo a spiegarmi. Mi è accaduto varie volte che, ascoltando cantare uno stesso brano o una stessa parte vocale dalla stessa persona ma in momenti diversi, mi accorgessi che, soprattutto di fronte a musica o parole di spessore, la persona non potesse nascondere nemmeno a se stessa un certo intimo sentimento di sé; come se « registrasse » quel che la propria personalità è in quel momento, limpidamente, senza poter « barare » come capita invece quando ci si descrive nel linguaggio parlato. Quando parliamo di noi possiamo mettere schermi, quando cantiamo – soprattutto alcune cose in alcuni momenti – questi vengono trapassati.
Mi accorgo che non è facile da spiegare, mi scuso…
Allora – se capisco bene – se la voce è legata alla personalità, e se, suonando, proviamo a rifare quello che cantiamo, è una ragione in più per affermare che la nostra interpretazione è legata alla nostra personalità. Più si riproduce quello che si canta, più l’interpretazione è personale.
Eh, sì.
Ma sai che la voce è personale anche perché è risonanza corporale? Ho letto che la nostra morfologia influenza la nostra voce. Perciò abbiamo qualche volta una voce simile a quella dei nostri genitori. Non è soltanto perché abbiamo riprodotto, ma anche perché siamo fatti come loro.
Così si capisce di più che la voce è l’espressione dell’interiorità nel senso di “incarnazione”. E’ un’anima dentro un corpo. Questo corpo, di cui esce il suono, è strumento.
Noi siamo degli strumenti viventi.
E il segno di questa vita è, giustamente, la respirazione…
Così torniamo all’idea secondo la quale la voce aiuta a mettere i silenzi al posto giusto.
Sì. Il silenzio, il respiro fra due momenti musicali è segno di vita anche in musica. Non è per niente un vuoto. E’ come il negativo della fotografia, nel senso di un altro modo con cui si rivela il positivo.
Il passaggio fra interiorità e esteriorità che è la voce si fa con il ritmo regolare della respirazione.
Sì. Non è qualcosa di opzionale. E’ vitale. Senza, rischiamo di soffocare. Purtroppo quando suoniamo lo dimentichiamo spesso e produciamo qualcosa di soffocante.
In musica, come nelle relazione umane, la fusione non è una cosa buona. Per entrare in relazione bisogna essere in due, perché ci sia una continuazione nel canto bisogna separare con il silenzio.
Sì. Credo sia Roman Ingarden a dire che, soprattutto in certe forme, la musica è anche momenti di silenzio: per esempio, il silenzio che segue i movimenti di una sinfonia (a parte il caso in cui essi siano volutamente continui) è qualcosa di necessario perché separa due diversi elementi, dando così unità. La rende possibile. Non è quindi paragonabile ad un vuoto, pura assenza di musica.
Effettivamente la fusione annulla. Non rende possibile la comunicazione.
Del resto, il nostro sistema tonale si fonda su questa contrapposizione. Pensiamo alla opposizione tra tonica e dominante. Da qua viene l’unità: da una tensione di opposti (il filosofo greco Eraclito è stato il primo a parlarne in termini… concettuali, diciamo).
Ma se ci pensiamo bene, questo separare viene già dall’origine. Ho incontrato dei musicisti che mi hanno detto: “sento sempre qualcosa che canta dentro di me”. Secondo me la nostra interiorità è fatta di suoni. Poi, da questo fondo emerge il canto, la melodia. Quando cantiamo separiamo questa melodia del nostro caos musicale interiore.
In questo senso che stai dicendo ora, il canto è come il concetto: è delimitazione, taglia, fa emergere qualcosa di preciso dal flusso indistinto del sonoro.
Con questo argomento arriviamo all’analogia musica/parola, musica/linguaggio, argomento molto ampio, che preferisco non aprire! Invece torniamo a qualcosa di vicino: la lettura dello spartito da cui deriva il canto interiore. In che modo ti metti in relazione con il testo ?
Per quell’argomento ti segnalo The ananswered question, quel ciclo bellissimo di conferenze che Leonard Bernstein tenne ad Harvard negli anni ’70, dove sviluppa quella analogia in modo sistematico e suggestivo. Rispondendo a quel che mi chiedi, direi che provo a tenere la maggior fedeltà possibile. Non si può violare la cosa scritta senza aver fatto prima un lavoro profondo, meditato, che giustifichi questa violazione; e neanche senza essere pronto ad accettare eventuali critiche. Il musicista deve essere innanzitutto disponibile a quello che è scritto.
Che significa “essere disponibile” ?
Rendersi conto di quello che è la natura del pezzo, la costruzione, l’intenzione, fino al senso della singola frase.
E come ti aiutava il tuo maestro ?
Più che usare la chitarra, cosa che senza dubbio poteva fare e faceva, il maestro cantava. O diciamo che faceva cantare la chitarra… Prima diceva che bisognava capire la musica stessa, e poi veniva la difficoltà tecnica.
Però se non sai fare quello che è scritto è anche vero che è molto più difficile sentirlo.
Certo. Però ci sono anche più possibilità tecniche di fare la stessa cosa. Per esempio, fare un mi sul « cantino », sulla prima corda suonata a vuoto, ha un certo esito timbrico, e cioè darà sempre una maggior nitidezza, chiarezza ma anche asprezza di suono. Farlo sulla seconda corda al quinto tasto fa ottenere un suono più pastoso, caldo, dolce, e, rispetto al primo, meno chiaro, brillante. A volte il compositore indica dove vuole eseguita la nota, magari per necessità tecnica ma magari perché vuole quell’effetto che la chitarra può dargli (soprattutto se conosce bene lo strumento, se ne rispetta l’”idiomaticità”, come si dice, ossia la sua tipicità come materia e forma). Altre volte è lasciato alla decisione di chi suona; allora devi sapere cosa vuoi ottenere, cosa è meglio, e in base a questo sceglierai agendo quindi sulla tecnica. Ed ecco che si ritorna al fatto che uno allora deve divenire musicista, e « poi » chitarrista.
In tutto questo qual è il ruolo della tecnica ?
Su questo tema Stefano Viola (un altro grande maestro di chitarra che ho incontrato nella mia formazione) scrisse un articolo molto interessante che si chiamava “Il peso della tecnica o la tecnica del peso”. Diceva che la tecnica è un problema di assecondamento dei pesi già esistenti in natura; e che quindi non occorre aggiungere niente alla forza di gravità. Il che si traduce nel fatto che non bisogna aggiungere qualcosa che non venga dalla naturalità dei gesti e delle forme del corpo umano. In sintesi, quando la tecnica è buona, il corpo e lo strumento sono armonizzati.
In che senso, concretamente ?
E’ diverso per il suono incarnarsi in un canale adeguato, oppure incarnarsi lottando con i mezzi materici in cui si incarna. Bisogna seguire un cammino che sia il più naturale possibile.
Però, appunto, suonare non è per niente naturale. Siamo tutti più o meno storti quando suoniamo.
È vero, ma fino a un certo punto. Anche la chitarra sembra anti-anatomica. C’è senza dubbio una resistenza che lo strumento pone. Però può essere naturale, oppure non-naturale.
Come “non naturale” ?
Il rilassamento è fondamentale, quando ci si approccia allo strumento. Per esempio, rispetto alla mano sinistra, il mio professore mi aveva fatto vedere un movimento del braccio che aiutava a fissare il punto di arrivo perché poi la mano premesse i tasti in un modo conforme a come è fatta. In realtà è quasi banale: il punto d’arrivo migliore sulle corde coincide con il percorso che il braccio e la mano fanno sollevandosi dal busto al petto, nel modo più rilassato e naturale possibile – tanto che sembra quasi « casuale »! -. Come spero si riesca a intuire, basta ricordarsi di non partire da una posizione che sia più « studiata » di quella conforme al movimento più economico che il nostro braccio può fare nella nostra posizione seduta! In tal modo, le dita si presentano sulla tastiera né perfettamente parallele alle corde né formanti un angolo troppo grande: arrivano « giuste ».
Sì. Anche con il violoncello ci sono diversi modi di capire il movimento giusto. La mia professoressa russa mi parlava del “canale che lascia libero il braccio” quando mi faceva vedere come tenere l’archetto. Per quello che riguarda il violoncello ho sentito più volte che la bellezza del suono veniva della mano destra. E’ vero anche per la chitarra? Mi potresti spiegare un po’ il ruolo di entrambi le mani ?
Allora; la mano sinistra preme le corde. Servono quattro dita; il pollice fa da contrappeso alla loro spinta sui tasti, e insieme da stabilità e misura alla mano. Per quanto riguarda la mano destra… Beh, è un mondo a parte. Difficile anche solo riassumere le funzioni principiali. Diciamo che – a livello di spiegazione elementare – essa, pizzicando le corde, produce il suono. E, in modo analogo alle due mani del pianoforte, si occupa di melodia e accompagnamento. Dico in modo analogo perché – mi viene questa immagine, non so quanto colleghi chitarristi più autorevoli la condividerebbero, ma almeno provo a farmi capire – se nel pianoforte grosso modo abbiamo una mano più adibita alla funzione di accompagnamento armonico ed un’altra più alla conduzione della melodia, nella chitarra abbiamo 4 dita di una stessa mano – la destra – che devono alternarsi in queste due funzioni; una delle cose più difficili, infatti, è imparare a dare ad ognuna il peso giusto, in modo che si rispetti la melodia e il suo emergere.
A cosa servono i tasti ?
Vengono dalla storia dello strumento. Il suono con i tasti è più nitido, distinto; sicuramente, per forza di cose, più metallico. Non puoi fare il « glissando » con l’effetto che può avere sul violoncello, però.
Cosa intendi dire ?
La chitarra è simile al pianoforte, nel suo effetto di glissando: passa per tutte le note scandendo all’orecchio i semitoni. C’è una tecnica che fa un suono più simile al glissando violinistico, che però è prevalentemente usata nella chitarra moderna, e ha le sue radici in particolare nel blues afroamericano: proprio per simulare quell’effetto di « lamento » (frequentemente cercato in questo genere musicale) che la voce umana può ottenere, nacque la tecnica dello slide, ossia far scivolare su una tastiera di chitarra materiale come vetro o ferro (i primi bluesmen usavano il cosiddetto bottleneck, un collo di bottiglia calzato su un dito della mano sinistra).
Non c’è mai uno suono continuo?
No, non come per gli strumenti ad arco; ma possiamo imitarlo con la tecnica del tremolo (una stessa nota ribattuta in modo alternato e continuo con le tre dita della mano destra).
Ho imparato la chitarra da sola qualche anno fa e ho avuto un po’ di difficoltà con questa mano (la sinistra), perché mi sentivo molto storta e tesa.
Perché questa mano ha la velocità, la pressione etc da gestire. Quando l’energia è troppa c’è il rischio di irrigidirsi. Tutto si gioca sul giusto rilassamento. Avevo imparato un esercizio molto facile, sempre dal mio maestro: senza produrre suono con la mano destra, ma unicamente usando le dita della mano sinistra, devi premere la corda sul tasto, poi rilassare; poi premere, e di nuovo rilassare; e così via. In questo modo impari pian piano a usare il peso che ci vuole, e non di più, gestendo correttamente l’energia ed eliminando le tensioni inutili. Quando ci riflettiamo su, effettivamente, ci accorgiamo che suonando il movimento è sempre lo stesso: premere, rilassare le dita. Questo può avvenire via via automaticamente anche nei passaggi più difficili.
Qualche volta immaginiamo delle cose molto complicate quando c’è un modo facile.
Sì, è sempre così. E’ la stessa cosa nello sport, credo. Il principio più importante è quello di economia: il movimento è più bello quando è più economico. Il gesto tecnico è bello perché non è ridondante: cioè non aggiunge niente di più del necessario.
E con la mano destra?
Rispetto a quello che dicevi prima possiamo dire che per la chitarra il discorso può essere simile a quello del violoncello: è la mano destra che influisce in modo più decisivo sul suono. Forse – starei per dire – quello che chiamavi prima « personalità » è qualcosa che si esprime di più attraverso questa mano.
Perché?
Per esempio, a causa delle unghie.
Ah si ??
Certo! E’ un aspetto fondamentale. Noi dobbiamo rifare la forma delle unghie tre o quattro giorni prima di un concerto perché sia ideale, per esempio. E’ strano da dire, però la cura delle dita e in particolar modo delle unghie è fondamentale. Da questo dipende il suono.
Perché ?
Perché dall’unghia dipende il modo di pizzicare la corda. Noi abbiamo un contatto diretto con la corda e quindi con il luogo di produzione del suono. Non abbiamo nessun meccanismo che viene azionato come per il pianoforte, o nessun archetto, niente che in qualche modo ponga una seppur minima distanza. E’ così stretto il legame con il suono che – non so – uno che si emoziona facilmente e a cui trema la mano può proprio mancare la corda e quindi non produrre del tutto il suono, non solo produrlo male. Però in questo stesso legame sta molto anche del fascino della chitarra: la possibilità di variazione timbrica e di effetti sonori è incredibile, unica (Berlioz diceva che è una « orchestra in piccolo »).
E’ vero. Allora come ti tagli le unghie ? Spiegami un po’ che sono totalmente ignorante…
Ci sono più tecniche… è un altro mare magnum! Dipende innanzitutto dal punto di attacco che vuoi avere sulle corde, che a sua volta dipende dalla posizione della mano destra; io tendo ad essere piuttosto laterale. È difficile spiegare senza mostrarlo, ma in questo modo il suono può risultare ben « scavato », come si dice in gergo, perciò sonoro, rotondo. Allora, in base a questo, la forma dell’unghia dovrà essere molto spiovente, così da favorire lo scorrimento senza intoppi sulla corda. Proprio a questo scopo, si possono anche alzare artificialmente le unghie…
Ma veramente ?! Non fa male ?
Puoi fare così – sto per svelare dei segreti dei chitarristi classici! E sono cose che capisco che possano risultare folli per chi non è del mestiere… -: se copri il polpastrello con della carta stagnola, isolandolo, e scaldi qualcosa di ferro con la forma giusta, come un cucchiaino, puoi modellare l’unghia dandole la forma ideale, evitando che, cadendo naturalmente all’ingiù, blocchi la corda in uscita… Non è necessario, eh?, eppure può servire tanto! Poi ci sono anche delle unghie finte, usate ormai da molti.
Finte ?
Sì, sono una specie di protesi per chi ha problemi di tenuta o di forma delle unghie. Però non sarà mai la stessa cosa rispetto all’unghia vera, come si può intuire.
E tutte queste cose influiscono sul tocco ?
Sì. Pensa che dalla forma dell’unghia a volte si può intuire a quale scuola chitarristica si appartiene!… In generale, ci sono tante tecniche di tocco. La scelta più basilare è, per esempio, quella fra tocco libero e tocco appoggiato. Per anni questo binomio (ora è un’idea un po’ superata) ha fondato la differenza tra il dare peso o meno alle note nella conduzione della melodia. Al volo: nel tocco libero il dito, dopo aver pizzicato la corda, si solleva verso l’alto; in quello appoggiato si appoggia – appunto – alla corda superiore, così che il suono risulta essere molto più marcato e potente.
E poi come sai se l’interpretazione e il tuo tocco, convengono, sono adatti al testo musicale ?
Quando il tutto suona bene diciamo che l’interpretazione funziona…
Spesso il chitarrista si deve adattare agli altri, giusto ? Suonate spesso con altre persone.
E’ vero che la chitarra ha avuto più fortuna nel ruolo dell’accompagnamento (anche per le caratteristiche che ha). Personalmente è anche quello che mi piace fare, è il campo dove opero di più come chitarrista.
Perché ? Non siete dipendenti da un pianoforte per fare l’armonia, voi.
Effettivamente, come evoluzione del liuto, la chitarra è stata usata in sostituzione alla polifonia delle voci. Perché è uno strumento armonico. Ma è anche un grande strumento solista. Insomma, è completa! Però è vero che, quando siamo con gli altri, succede qualcosa che va oltre le nostre singole possibilità; questo sento che vale molto per la chitarra, ed è la cosa che mi affascina più di tutte.
Grazie tanto !! E sopratutto del tempo prezioso che mi hai consacrato !